’I flussi migratori sono una realta’ ineludibile. Dire ’Chiudiamo i campi profughi’ o ’Basta profughi’ equivale ad ascoltare una persona che vive nella foresta pluviale del Rwanda affermare ’Vietiamo la pioggia per legge’. È una negazione strumentale, di piccolissimo cabotaggio, relativa a un fenomeno reale che invece richiede di essere governato economicamente, politicamente, socialmente e psicologicamente’. Senza giri di parole Stefano Carta, professore di Psicologia dinamica dell’Universita’ di Cagliari (Unica) ed ex presidente dell’Associazione italiana di psicologia analitica (Aipa), riflette su come gestire il fenomeno migratorio e le modalita’ di fare clinica oggi, in occasione della Giornata mondiale dei profughi.
Un tema caro allo psicoanalista, che nel 2008 ha contribuito alla creazione del progetto di Etnopsicologia analitica, diventato oggi un’esperienza interna ad Aipa con il gruppo ’Percorsi migranti’. ’Il primo rinculo di una riflessione sull’altro- prosegue Carta- e’ un approfondimento di se stessi e una messa in critica dei propri modelli. Molto dei nostri modelli deve essere messo in crisi non solo nella diagnosi ma anche nei metodi di intervento per poter affrontare l’altro in quanto altro’. L’interesse psicoanalitico ’non puo’ prescindere dal fronte socioculturale che pone sfide sempre piu’ importanti alla clinica, restituendo analisti e psicoterapeuti alla loro dimensione sociale e politica. Si fa sempre politica- conferma lo psicoterapeuta, intervistato dalla Dire- non si puo’ immaginare di non fare politica nel momento in cui si pubblica un manuale psichiatrico come il Dsm (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) o si allestisce un Centro di Salute Mentale’. Lo smottamento planetario ’che ha messo in moto la terza grande immigrazione della storia dell’umanita’ da’ a tutti il diritto ad avere la casa nel luogo dove vivono con l’obbligo di seguire i diritti e i doveri che il contesto impone’. Ma ad ostacolare tale liberta’, secondo Carta, ’e’ la cultura postcapitalista in cui siamo immersi, basata sull’assoluta circolazione di tutti (beni e persone), tranne che di quei soggetti che non garantiscono di essere dei consumatori. Ci troviamo davanti a un’aporia antropologica, politica, economica e a una falsa coscienza che non ha confini. Abbiamo costruito i presupposti per invogliare gli altri a venire da noi- denuncia lo psicologo- con il terribile malinteso che siamo accoglienti, perche’ cosi’ ci propagandiamo a distanza’. I movimenti regressivi ’che osserviamo negli Stati Uniti e in Europa oltre a mostrare il tramonto degli Stati Nazione -afferma il consulente del Centre for Trauma, Asylum and Refugees della University of Essex- mettono in risalto il fondo selvaggio di quello che siamo. Per quanto sia spaventoso cio’ che e’ accaduto in Inghilterra, e’ ancora piu’ increscioso ascoltare il primo ministro Theresa May dire che sospenderebbe i diritti umani. Dobbiamo chiederci allora chi e’ il ’selvaggio’ e chi non lo e’? Chi e’ indigente e chi non lo e’? E soprattutto chi smette di essere una persona?
Sappiamo tutti che i migranti sono una risorsa, anche dal punto di vista economico- sottolinea lo studioso di etnopsicologia- e che la proiezione e la polarizzazione sul migrante di immagini negative e’ una strategia politica vecchia quanto il mondo. Si chiama ’capro espiatorio’, una delle strutture psichiche fondative della costituzione aggressiva dei gruppi, quale ’normale’ meccanismo di autodifesa relativa all’insicurezza di quanti non sentono piu’ di avere un’identita’ sociale, economica e politica specifica’. La proiezione dell’altro in senso persecutorio e’ un ’messaggio di marketing politico solitamente indirizzato a classi in crisi che soffrono un disagio sociale. Vengono manipolate per indirizzare la loro sofferenze sull’altro’. L’Italia non e’ un paese in cui ’sono ancora presenti forti meccanismi vittimari- rassicura Carta- a differenza del blocco dei paesi ex austroungarici che, forse, avendo perso la loro identita’ storica, provano a recuperarla contro gli altri. Voglio sottolineare pero’ le potenzialita’ manipolative di questo fenomeno, i ragionamenti che sottendono la manipolazione politica, al netto delle difficolta’ socioeconomiche, si basano sulla de-umanizzazione dell’altro. Si sta facendo appello a categorie generiche come ’i migranti’- continua l’esperto- considerandoli tutti portatori degli stessi problemi e mai di una soluzione.
Fare di singole persone una categoria significa proiettare su quel contenitore apparentemente neutro le nostre immagini, allontanandoci dalla realta’ empirica che e’ molto diversa da quella utilizzata nei mezzi di comunicazione di massa. Parlo di un politico che, guarda caso, il giorno successivo a delle elezioni non andate bene lancia il piu’ facile dei messaggi, ’Basta migranti nella mia citta’’, dimenticando che i nostri problemi nazionali sono la disoccupazione, la mafia, la ndrangheta, la camorra, la mala politica e il ’divide’ intergenerazionale. Fortunatamente non siamo ancora arrivati a Trump, ai filo razzisti austriaci o alla frase pronunciata dalla May’. Carta invita ad avere un atteggiamento maggiormente critico: ’Tutti noi, analisti e psicoterapeuti, dobbiamo ripensare chi sono i nostri pazienti e quali sono le nostre categorie diagnostiche e psicopatologiche. Il primo passo da compiere e’ depatologizzare la psicopatologia- prosegue l’analista- perche’ dietro i migranti, i rifugiati ci sono persone, progetti di vita e storie. Se li trattiamo patologizzando la loro situazione, finiamo per destoricizzare la loro esperienza. Continuando di questo passo, avremo a breve moltissimi utenti borderline’. L’etichetta piu’ usata oggi e’ quella del disturbo post traumatico da stress (Ptsd): ’Esiste un problema diagnostico. Quando si procede a una valutazione del Ptsd, oltre a osservare le condizioni che lo avrebbero potuto causare, bisognerebbe soprattutto considerare il modo attraverso cui la persona ha interpretato questi fatti. Le avversita’, anche estreme, non sempre provocano un disturbo, possono anche diventare un’opportunita’ significativa nella vita di chi li subisce, che finisce per apprezzare la sua esistenza fino in fondo. In secondo luogo, se vado a cercare (solo) il Ptsd probabilmente lo trovo, ma se non cerco gli aspetti di resilienza, o addirittura di trascendenza che le stesse avversita’ possono aver causato, sottraggo al soggetto le sue risorse.
Ricordo- racconta Carta- che quando chiedevamo ai ragazzi palestinesi reclusi nelle carceri israeliane di parlarci della loro esperienza, cogliendone anche gli aspetti positivi, le prime reazioni erano rabbia e sconcerto. Si presentavano come potenziali etichettandi traumatizzati. E quando una persona e’ vittima, la cosa peggiore che puo’ accadere e’ che si identifichi nel ruolo di vittima, costellando un persecutore e un salvatore. Diventa cosi’ un soggetto passivo, dipendente e rabbioso con il perenne bisogno di essere salvato. È un terribile circuito, ma invitandoli ad una riflessione piu’ profonda alcuni di loro riuscirono ad arrivare a delle risposte diverse. Uno ragazzo racconto’ di essere diventato un punto di riferimento per la sua comunita’, proprio perche’ era stato toccato da un’esperienza limite. Dico questo- chiosa l’analista- perche’ se si cerca un Ptsd si trova solo un Ptsd, si patologizza la persona e si perdono di vista i possibili aspetti di resilienza e trascendenza che la stessa esperienza puo’ portare con se’’. Il culturalmente altro pone tante sfide: ’Le seconde generazioni di figli di migranti- prosegue il professore- che portano con se’ tutto il passaggio transgenerazionale delle identificazioni e del vivere tra mondi diversi. O, per esempio, anche i vissuti dei figli dei nostri terremotati, sradicati da un luogo e in attesa di una ricostruzione infinita delle loro abitazioni. Infine, restano ai margini le classi disagiate, che abitano luoghi fisici e sociali disagiati’. Occorre un ripensamento: ’Grazie al progetto Percorsi Migranti ci siamo rimessi in formazione per essere, per quanto e’ possibile, pronti ad aiutare psico-socialmente i migranti. Li incontriamo nelle nostre associazioni di riferimento e negli studi professionali, in forma consulenziale e mai assistenzialistica. I primi che intercettano la ’domanda’ sono le istituzioni religiose e i servizi pubblici, al momento stiamo stabilendo una proposta di collaborazione con gli operatori sociosanitari di una grande Asl romana. C’e’ da organizzare una nuova mentalita’; in Italia abbiamo la legge psichiatrica piu’ bella del mondo, la legge Basaglia, che va bene come impostazione di fondo, perche’ consente di depatologizzare la malattia mentale e riportare il cosiddetto malato nel suo tessuto socioculturale. In fondo- conclude Carta- stiamo pensando, parlando e agendo anche da questa ispirazione culturale; stiamo parlando di questo’.