Una bimba sana è nata in Brasile dopo un trapianto di utero da una paziente deceduta. Si tratta del primo caso riuscito al mondo. L’operazione di trapianto durata 10 ore, e il successivo trattamento di fertilità, hanno avuto luogo a San Paolo, nel 2016. La madre, 32 anni, era nata senza utero. Finora ci sono stati 39 trapianti di utero da donatrici viventi, fra cui madri che hanno donato l’organo alle figlie, con la nascita di 11 bambini. Ma i 10 trapianti tentati in precedenza da cadavere erano falliti o hanno portato a un aborto spontaneo, ricorda la ‘Bbc’. In questo caso, la donatrice era una madre di tre figli di circa 40 anni, morta per emorragia cerebrale. La ricevente presentava la sindrome di Mayer-Rokitansky-Küster-Hauser, che colpisce circa una donna su 4.500 e comporta alterazioni nello sviluppo di vagina e utero. Tuttavia, le ovaie erano sane. I medici sono stati in grado di rimuovere gli ovuli, fertilizzarli con lo sperma del futuro padre e congelarli. Alla donna sono stati somministrati dei farmaci immunosoppressori, prima di eseguire il trapianto. Circa sei settimane dopo, la paziente ha iniziato ad avere il ciclo. Dopo circa sette mesi, gli ovuli fecondati sono stati impiantati. Così, al termine di una gravidanza normale, il 15 dicembre scorso la bimba di circa 2,5 kg è venuta alla luce con taglio cesareo. “I primi trapianti di utero da donatrici viventi sono stati una pietra miliare della medicina – ha dichiarato Dani Ejzenberg, dell’ospedale das Clínicas di San Paolo – offrendo la possibilità di partorire a molte donne infertili con accesso a donatrici idonee e strutture mediche. Tuttavia la necessità di un donatore vivente è un limite importante, in quanto le donatrici sono rare, in genere componenti della famiglia idonee e disponibili o amiche intime”. Per Srdjan Saso, dell’Imperial College di Londra, i risultati ottenuti in Brasile sono “estremamente eccitanti”. Questo tipo di intervento “consente l’utilizzo di una popolazione di donatori potenziali più ampia, richiede costi inferiori ed evita i rischi chirurgici collegati ai donatori viventi”.