“Pensammo di non svolgere alcun accertamento sul mancato fotosegnalamento. Non volevamo nascondere qualcosa, era solo che non si era ritenuto di approfondire la questione”. E’ quanto ha affermato il generale Vittorio Tomasone, sentito come testimone nel processo a carico di otto carabinieri accusati di presunti depistaggi sulle indagini dopo la morte di Stefano Cucchi avvenuta a Roma nell’ottobre del 2009. All’epoca dei fatti Tomasone era a capo del comando provinciale dell’Arma. “Quando il 30 ottobre 2009 – ha aggiunto il teste – convocai tutti i militari che avevano avuto a che fare con Cucchi mi fu detto che non fu fotosegnalato per un problema tecnico ma che si andò oltre perchè il ragazzo era stato già fotosegnalato in passato”. Tornando con la memoria a quei giorni, il generale ha ricordato che “all’epoca aveva un rapporto frequente, quasi giornaliero con il pm Vincenzo Barba”, titolare del fascicolo sulla morte del geometra. “Leggevo quanto scrivevano i giornali e io alla procura chiedevo se in questa storia c’entrassero o meno i carabinieri. ‘C’è qualcosa che noi dobbiamo fare?’ domandavo al pm”. In merito all’interesse sull’aspetto medico-legale del caso, il generale ha aggiunto “di averne parlato con Alessandro Casarsa (imputato nel procedimento e capo de gruppo Roma all’epoca dei fatti ndr) a seguito di quello che la stampa scriveva sulla morte di Cucchi”.
“Questa storia ci ha distrutto fisicamente e economicamente, abbiamo passato momenti terribili”. Lo ha detto Rita Calore, madre di Stefano Cucchi, sentita come testimone. Il padre di Stefano, Giovanni Cucchi, anche lui sentito come testimone ha aggiunto che l’arresto “fu una doccia fredda. Porto sempre con me una lettera di Stefano dell’agosto 2006 per dimostrare che mio figlio teneva alla sua famiglia e noi a lui. Ilaria ha dovuto scrivere un libro per smentire che noi lo avessimo abbandonato”.