Sono iniziati puntuali alle 11.30, nella chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma, i funerali di Lina Wertmuller, la regista deceduta due giorni fa all’età di 93 anni. Ieri la camera ardente nella Sala della Protomoteca in Campidoglio nella capitale. Rose bianche e rosse, anche quelle inviate da Sophia Loren (‘dalla tua cara amica’), una corona del Comune e il gonfalone di Napoli, città che l’aveva eletta cittadina onoraria, e una folla silenziosa e discreta, soprattutto giovani, gli amici della figlia Maria, per rendere l’ultimo omaggio. Diversi i personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo e non solo. Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri ha accolto la salma e i parenti in Campidoglio, poi sono arrivati l’assessore capitolino alla Cultura Miguel Gotor, l’attrice Veronica Pivetti e il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. “Lina Wertmuller – ha detto Franceschini – è stata una grande donna, una regista coraggiosa, innovativa, avanti rispetto ai tempi”. Lina Wertmüller non c’è più, ma potremmo scommettere che proprio in questo momento, da qualche altra parte, sta ridendo del suo ennesimo scherzo al destino: la morte non le faceva paura: “Gli anni ci sono e si sentono – diceva appena poco tempo fa – ma lavorando mi sono divertita tutta la vita e non è poco”. Per capire il segreto di questa artista dalla volontà ferrea, dal talento inesauribile, dal fisico minuto e dal cuore grande, bisogna forse tornare molto indietro, alle origini della sua carriera. Fin da ragazzina ha il fuoco dello spettacolo nelle vene, scopre il teatro tradendo le aspettative di famiglia, ma si concentra su tre linguaggi diversi: le marionette (ha il dono di dare un’anima a ciascuna), la radio (dove compone un brillante sodalizio con Matteo Spinola, poi elegante principe della promozione cinematografica), il cinema di scuola felliniana (il Grande Riminese sarà il suo mentore all’esordio nella regia). In più ha nel bagaglio due maestri d’eccezione come Garinei & Giovannini che la porteranno in tv per una fortunata edizione di “Canzonissima”. In questo crogiuolo di esperienze si va formando un talento originale e, paradossalmente, senza una sola discendenza artistica. Quello di Lina è un linguaggio spregiudicato, in anticipo sui tempi, capace di portare la commedia sui sentieri dell’assurdo e, insieme, di restare legato alla realtà di un paese che cambia e scopre il benessere del boom. Il suo esordio con “I basilischi” (1963) è un esplicito omaggio a “I vitelloni” di Fellini ma, fin dall’ambientazione in un Sud a lei ben noto (il film fu girato in gran parte a Palazzo San Gervasio nel potentino da cui veniva la sua famiglia), parla di un’altra Italia, solare e disincantata che tornerà spesso nella sua narrazione del mondo. Non a caso la motivazione dell’Oscar alla carriera che nel 2020 confermò il prestigio internazionale che l’Academy le attribuiva fin dalla nomination come migliore regista (prima donna in assoluto a ottenere l’attenzione di Hollywood nel 1977 per “Pasqualino settebellezze”) recita: “per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa”. Oggi ci lascia in eredità 23 film, alcuni dei quali sono pietre miliari del costume (“Mimì metallurgico…”, “Travolti da un insolito destino…”) e altri perfetta incarnazione di un’idea colorata e attraente dell’Italia (“Sabato, domenica e lunedì” e il sodalizio con l’amica adorata Sophia Loren). Ma il tratto in fondo più originale è la spregiudicata libertà delle sue scelte: debutta col cinema d’autore, ma subito dopo non si fa scrupolo di provarsi (sotto pseudonimo) con lo spaghetti western (“Il mio corpo per un poker” con Elsa Martinelli) per far capire ai produttori che la regia è anche mestiere da donna; scopre la vena istrionica di Rita Pavone, la collauda in un paio di “musicarelli” e poi la esalta nel memorabile “Giornalino di Gianburrasca” girato per la televisione tra il 1964 e il 1965. Raggiunto il successo nel decennio d’oro degli anni ’70, vira ancora verso il racconto surreale (“La fine del mondo nel nostro solito letto”, 1978); si dedica a Napoli e alla sua cultura prediletta, ma il suo grande ritorno viene in accordo col genovese Paolo Villaggio per “Io speriamo che me la cavo” (1992). Disgustata dalla disattenzione della distribuzione tradizionale, abbraccia nuovamente il racconto televisivo alle soglie degli anni Duemila, ma dopo il David di Donatello alla carriera del 2010 depone le armi e si ritira in un dignitoso silenzio. Un vero peccato perché la sua verve è viva fino all’ultimo giorno e dal suo carniere avrebbe potuto estrarre altri gioielli. “Ho sempre avuto un carattere forte, fin da piccola – raccontava Lina Wertmueller- . Sono stata addirittura cacciata da undici scuole e sul set ho sempre comandato io”.