giovedì, Dicembre 26, 2024

Cerveteri, quando le foche monache dimoravano agli scoglietti di Furbara

Il bello di chi fa ricerche storiche mirate è che se trova (non sempre) quello che cerca, a volte si imbatte in piccole gradite sorprese assolutamente inaspettate che provengono da situazioni estremamente marginali rispetto a ciò che si ha in obbiettivo primario, e questo è il caso di ciò che vengo a narrarvi amici lettori. Effettuando una ricerca storico-sociologica sui cambiamenti portati dalla costruzione della linea ferroviaria Roma – Civitavecchia (avvenuta fra il 1856 ed il 1859) su tutta la costa a nord della Capitale (-una landa desolata ed assolata contaminata dal “mostro fumante”- cfr. “Partiamo insieme,storia dei trasporti italiani” F.Olgiari e F.Sapi vol. XV Milano 1974, p.157 e ss.), ferrovia nata grazie all’iniziativa della “Società Generale delle Strade Ferrate Romane” ma voluta fortemente dal Pontefice di allora il famoso Pio IX tanto da venir chiamata la “Pio Centrale”, mi sono imbattuto in una particolare curiosità zoologica andando a sceverare, per ciò che mi interessava nello specifico, i vari testi di Antonio Nibby, Pompeo Moderni, Alphonse Balleydier, Camillo Ravioli, Giuseppe Tomassetti, Carlo Calisse, Giulio Francesci, Achille Apolloni, Giuseppe Lepri, Edoardo Martinori, Enrico Simberghi, Francesco Chigi, Cesare De Cupis, Giulio Sacchetti, Fulco Pratesi e Franco Tassi analizzando una serie di reiterate costumanze ed usanze della società dell’epoca nella zona del Sasso di Cerveteri ed a valle di esso. Ciò particolarmente in ambito venatorio e non solo, in quel di Montetosto (proprietà dei Rospigliosi Pallavicini), Casale Turbino e Furbara (tutto all’epoca, insieme al Sasso, in totale possedimento dei Marchesi Patrizi, una proprietà che il Nicolai quantizzò in una superficie totale di 2.850 ettari c.a. definendo il Sasso e dintorni “il Frascati della Maremma”. Si trattò di situazioni territoriali queste succitate che furono senz’altro implementate a livello umano, in alcuni periodi, dai cacciatori tramite l’utilizzo della suddetta ferrovia che andò, in tal modo, a far evitare gli spostamenti a cavallo, in diligenza, carrozza o calesse sulla Via Aurelia, brevi viaggi resi però anche piuttosto problematici ed estremamente pericolosi da una non trascurabile presenza di briganti, già incontrabili, spesso e volentieri, poco fuori le mura romane di Porta San Pancrazio al Gianicolo. Un pericolo costante ed immanente quello dei briganti che faceva però il paio con un altro grande pericolo, più subdolo e meno immediato, ma addirittura più tremendo e minante, rappresentato dalla millenaria tragedia della malaria che “impazzava” alla grande particolarmente nelle zone costiere decimando intere famiglie come accadde anche nel territorio di cui stiamo parlando. Tralasciamo tutta la parte storica ed archeologica (non da poco) concernente la zona suddetta dai tempi degli etruschi e degli antichi romani, fino a giungere ai passaggi del Corpo di Spedizione Francese che transitò sull’Aurelia (in zona Turbino) dal 26 aprile 1849 fino all’1 maggio per accamparsi poi a Palo, ciò antecedente, ma non di molto, alla costruzione della “Pio Centrale” (Roma – Civitavecchia così chiamata in omaggio al Papa dell’epoca che era Pio IX° – ndr).

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