giovedì, Aprile 24, 2025

Bergoglio e la donazione ai detenuti di Roma: “A loro oltre 200mila euro, i suoi ultimi risparmi”

Quel filo che univa Papa Francesco ai carcerati parlava la lingua dell’autenticità e della compassione. Lo racconta con commozione Monsignor Benoni Ambarus, vescovo delegato alla carità e alle carceri, che negli anni ha condiviso con il pontefice l’impegno verso i detenuti.
“Pochi giorni prima di morire, Francesco si è trascinato fino a Regina Coeli. Non aveva più forze, ma con la sua presenza ha voluto urlare al mondo che non possiamo abbandonare chi vive dietro le sbarre”, racconta.
E poi aggiunge: “I suoi ultimi averi? Li ha donati a loro: 200 mila euro, usciti dal suo conto personale”. Un gesto lontano dai riflettori, che parla più di tante omelie. “Quando gli chiesi un aiuto economico, mi disse che non c’erano più fondi, ma che avrebbe trovato qualcosa nel suo conto. Così ha fatto”, rivela Ambarus.
Il silenzio delle istituzioni Il legame con i detenuti era vivo, quotidiano, anche nei momenti più difficili. “Quando si parlava di carcere, lo vedevo soffrire. Era affranto”. Ha lavato i piedi ai carcerati, ha aperto per loro la Porta Santa di Rebibbia – seconda solo a quella di San Pietro – e ha chiesto un gesto concreto: uno sconto di pena, anche simbolico, di un mese o due. Ma non è arrivato nulla.
“Neanche questo è arrivato dalle istituzioni. Il mio bilancio non è positivo”, ammette. “Una grande tristezza ha avvolto i detenuti quando si sono resi conto che nessuno ha fatto nulla, nemmeno per credere nella loro capacità di rimettersi in piedi”.
La speranza che passa dalla presenza Anche dopo la Porta Santa, l’impegno è continuato. “Abbiamo trasformato quell’evento in un laboratorio di speranza. Due volte al mese cinquanta persone entrano in carcere per celebrare la Messa con i detenuti. Ma prima c’è un percorso: serve comprendere che un penitenziario non è uno zoo”.
Dopo ogni celebrazione, c’è un momento di riflessione, “su come rimboccarsi le maniche”. Per Ambarus il punto è chiaro: “Occorre esserci, durante la detenzione e dopo”.
“Un carcerato mi ha detto che nessuno era mai andato a trovarlo. Mi ha fatto male. Molti camminano scalzi perché non hanno scarpe. Lo Stato dà il vitto, ma non il resto. Dobbiamo ricordarci che sono fratelli e sorelle, non fantasmi chiusi a chiave”.
E chiude con il ricordo più toccante: “I detenuti in lui vedevano un padre. Mi hanno affidato un fiore e una lettera da posare sulla sua tomba. Quel seme di speranza che ha piantato, ora tocca a noi farlo crescere”.

Articoli correlati

Ultimi articoli