”Il perseguimento delle condotte criminose, anche se efferate e ignominiose quali quelle oggetto di imputazione, devono passare, in uno Stato di diritto, attraverso il rispetto delle regole del giusto processo regolato dalla legge, che si svolga nel pieno ed effettivo contraddittorio tra le parti”. Lo scrivono i giudici della prima sezione penale della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 15 luglio è stato dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Roma contro lo stop del processo sul caso Regeni, deciso dal gup (e prima ancora dalla Corte di Assise di Roma), nei confronti dei quattro 007 egiziani imputati per l’omicidio del ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto nel 2016. La giustizia italiana è tenuta “ad applicare senza strappi il tessuto normativo, garantista e rispettoso dei diritti di tutte le parti processuali” e il superamento della situazione che impedisce la partecipazione degli imputati al processo “appartiene alle competenti autorità di governo, anche alla luce degli obblighi di assistenza e cooperazione” che discendono dalle Convenzioni internazionali. Lo si legge in un passaggio della sentenza della Prima sezione penale della Cassazione sul caso Regeni. In particolare la Cassazione cita la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizione crudeli, inumani o degradanti di New York, ratificata con legge dall’Italia nel 1988 e dall’Egitto nel 1986.