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domenica, Settembre 1, 2024

Notarelle su Monte Nerone o Monteroni

Testo, traduzione e foto

di Angelo Alfani

Il toponimo Monteroni appare per la prima volta nel catasto Alessandrino del 1661, designando un’area ben delimitata nell’immediato entroterra del castello di Palo, ad un tiro di schioppo dal mare, lungo l’antico tracciato della consolare Aurelia. Alcuni rilievi naturali, alti fino a cinquanta metri, spiccano in un’area altrimenti piatta, dove le invasioni marine e la regressione del mare nostrum hanno formato un cordone sedimentario, una barriera difensiva: questa la ragione dell’antica denominazione di Tommoleto. Le dune di sabbia, indurite e modellate dal tempo, sembrano cilindri piovuti dal cielo sprofondati nella rossa terra. Nell’immaginario etrusco dovettero rappresentare la sede ideale delle loro tombe a tumulo, una logica conseguenza. Leggiamo il racconto che fanno di questo sito due avventurosi inglesi, gli Hamilton Gray, nel loro viaggio dell’anima della primavera del mille ottocento trentotto. “La nostra successiva escursione fu a Monte Nerone o Monterone, una locanda e minuscolo villaggio a metà strada tra Roma e Civita Vecchia, dove i viaggiatori usualmente cambiano i cavalli e dove sono visibili alcune colline coniche molto singolari, chiamate Colli Tufarini; esse sono esattamente come tumuli artificiali, e, trovandosi a non più di tre o quattro miglia da Cervetri, l’antica Agylla o Caere, potrebbe quindi essere stato il luogo di sepoltura di alcuni suoi principi, o di alcuni suoi guerrieri uccisi nei dintorni in battaglia. Nessuna storia, comunque, si sofferma su loro e nessun nome o riferimento ad antiche gesta li contraddistingue. Ciò nonostante antiquari e naturalisti sono concordi nel ritenere immuni da mano umana. Nelle vicinanze di Roma, dalle colline naturali: Monte Nerone ne era un eclatante esempio. Fortuna ha voluto che appartenessero alla Duchessa di Sermoneta, donna di grande spirito, che non volle farsi convincere dal dare assoluto credito ai suoi contadini, e a lasciare oziosamente non perlustrati tali collinette. Visto che aveva avuto fortuna negli scavi intrapresi nel porto di Pyrgi; ed essendo i tumuli in questione molto simili nella forma esterna a quelli che c’erano a Cervetri, decise di correre il rischio. Di conseguenza nel 1838 gli operai cominciarono a scavare la base di una di queste colline, e occorsero relativamente pochi giorni fino a che trovarono un muro di quadroni etruschi, che circondava completamente la base, di tre piedi circa di altezza. L’architettura etrusca è nota per l’uso di larghe pietre tagliate nella forma di cubi allungati, uniti tra loro da cemento oppure senza, ed ogni fila alternativa appoggia al centro del quadrone; o altrimenti una fila si stende per il lungo, e la nuova a fianco, così da produrre lo stesso effetto. Da qualche parte del tumulo comunque c’è sempre un ingresso, non facile da trovare ma c’è. Finalmente la tanto sospirata porta venne trovata proprio fronte mare. Un bimbo che ci faceva da guida, con una corda da buoi legata intorno alla vita, si lasciò scivolare lungo la collinetta. Urlando avvisò che il piano sotto era abbastanza asciutto. Due operai si calarono aiutandoci a scendere. Ci fecero strada penetrando in un cunicolo a volta, ai cui lati c’erano le solite piccole camerette vuote, con tufi rossastri in cui riposavano i sodali dell’importante personaggio sepolto nella camera principale. Penetrando nel cuore della tomba sbattemmo contro la raffigurazione di due pantere, animale sacro a Bacco, proprio sopra la porta. Su un lato della parete un grande sarcofago di tufo, scavato in unico blocco, senza coperchio. Un altro ingresso, della stessa forma, ci fece penetrare in una profonda camera con letti ai lati e nella parete più ampia due figure dipinte, che il ragazzino indicò come cavallucci marini. In realtà si trattava di delfini, o ippocampi, con geni sopra. Una raffigurazione classica con cui tutti i popoli marittimi d’Italia, esprimono il passaggio dell’anima, attraverso le turbolenze delle acque (vita) in un altro mondo”. 

Altro utile racconto è riportato nel libro di Donna Maddalena: The Patrizi Memoirs: a Roman family under Napoleon 1796=1815 in cui si narra la sosta a Monterone, dopo che i Francesi lo costrinsero, sotto scorta, il 24 novembre a lasciare Roma, del Marchese Giovanni Naro Patrizi. Dopo aver preso una carretella (una specie di calessino) con tre cavalli, chiara indicazione che si prospettava un lungo viaggio. “Non ebbi più dubbio alcuno quando il mio guardiano ordinò al vetturino di prendere immediatamente la strada per Civita Vecchia”. Era una notte estremamente fredda. Il leggero calesse con i suoi tre cavalli galoppando e barcollando nell’oscurità da cinque sei ore senza mai aver fatto una sosta, ed lo sfortunato prigioniero, chiamato dalla sua cena da pagare nella sua visita serale, e abbastanza non provvisto di extra coperte, soffriva terribilmente per il freddo finché la prima sosta fu chiamata a Monterone verso le tre di mattina. Il posto era un piccolo miserevole borgo che fungeva da stazione di posta a circa mezza strada tra Roma e Civita Vecchia. “Qui”, racconta il Marchese” io immaginavo che dovessimo cambiare i cavalli, ma si è rivelato era da intendersi semplicemente per far riposare quelli che già avevamo. Io scesi dal calesse, entrammo in uno sta zone attiguo alla stalla; qui un ruggente fuoco bruciava, e una decina di ospiti stavano dormendo sul pavimento ,attorno, piedi rivolti alla fiamma. Altri, che probabilmente consideravano se stessi privilegiati per la loro posizione, dormivano su cuccette contro il muro. Il fuoco rincuorava assai, visto che ero raffreddato fin dentro alle ossa. Continuando a pensare che si sarebbero presi cavalli freschi, fui sorpreso assai della lungaggine della sosta e cominciai a sperare che si aspettava che i miei figli accompagnati dai loro “rapitori” si riunissero a noi.”

Dopo quella interminabile sosta, il viaggio riprese. Ed il gendarme ebbe l’idea di riempire la base del carretto con paglia così da rendere perlomeno i piedi un pico più caldi di quanto ave ano avuto durante il tragitto. La luna era tramontata; la notte, ancora, era intensamente buia e la strada a partire da Monterone era notoriamente infestata da briganti e malfattori d’ogni tipo. Solo due guardie armate accompagnavano il calesse per quel lungo tratto, ed uno dei due fu ordinato di correre più velocemente così da raggiungere le autorità a Civita Vecchia per avvisare dell’arrivo del prigioniero. Il suo accompagnatore, nel lasciare Monterone, legò il cavallo dietro il calessino e sali a cassetta col conducente, con la carabina pronta all’uso. Comunque ne’ lui ne’ i suoi accompagnatori ebbero noie, e nel grigiore sottostante Civita Vecchia incombeva poco distante.

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