domenica, Novembre 24, 2024

Il riso del sudest asiatico mette in crisi quello italiano

Migliaia di ettari di campi di riso italiano rischiano di prosciugarsi. La colpa non è dei cambiamenti climatici ma dell’importazione di riso dal Sudest asiatico che da qualche anno sta mettendo in ginocchio l’industria italiana e che difficilmente – sostengono i risicoltori nostrani – subirà uno stop. Eppure il riso (quello buono) non è così economico. Il carnaroli, ad esempio, si trova sugli scaffali dei supermercati ad almeno 3 euro a pacco. Eppure nelle tasche dei risicoltori entrano appena 0,28 centesimi. Com’è possibile? Il riso della Cambogia, ma non solo, arriva in Europa a dazio zero e fa collassare il prezzo di quello prodotto in Italia. L’arborio, per esempio, è sceso dai 700 euro alla tonnellata del 2016 ai 300 di oggi, scrive il Sole24 Ore. Meno della metà. Sono gli effetti collaterali della globalizzazione che sta distruggendo un intero sistema retto da quattromila produttori, l’equivalente di otto Embraco: l’azienda brasiliana del gruppo Whirlpool che a febbraio ha deciso di licenziare 500 persone nel suo stabilimento a Riva di Chieri (Torino) e di trasferire la produzione di compressori per frigoriferi in Slovacchia.

Sulla vicenda è poi intervenuto l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e il governo Gentiloni che attraverso un accordo è riuscito a scongiurare i licenziamenti. Ma torniamo al riso. Per mettere un freno a questa inarrestabile caduta è necessario un intervento strutturale. E di questo si è convinta anche la Commissione europea che due settimane fa ha avviato un’indagine sugli squilibri generati nel mercato Ue dalle importazioni di riso dal Sudest asiatico. Valuterà le cosiddette clausole di salvaguardia, i contro-dazi insomma. “Tutto è cominciato alla fine degli anni Ottanta – ha raccontato al Sole il risicoltore Alessandro Beccaro – in Europa mancava la varietà Indica, quella a chicchi allungati per intenderci. Veniva tutta importata da fuori, ma era la più consumata nel Nordeuropa, che la usa come contorno. Così la Ue cominciò a dare incentivi a chi seminava questo riso. Io ho iniziato così”. E come lui molti altri. Racconta Paolo Carrà, presidente dell’Ente nazionale risi: “Fino al 1982 in Italia il riso occupava 169mila ettari, nel 2011 siamo saliti a 247mila: i 70mila in più sono tutti nuovi campi ricavati per la varietà Indica. Il nostro Paese produce il 50% di tutto il riso europeo e esporta il 60% della produzione”.

Dov’è allora il problema? Per molti anni va tutto bene, i risicoltori italiani passano dalle 300mila tonnellate esportate nel 2004 alle 600mila del 2008. Poi, arrivano gli accordi con i Paesi in via di sviluppo del Sudest asiatico: Myanmar, Bangladesh, Laos e soprattutto Cambogia. La Ue, per aiutarli, concede il dazio zero su tutto quello che l’Europa importa. E qui cominciano i guai dei 4mila risicoltori italiani. “Dai Paesi degli accordi Eba (Everything but the arm, tutto tranne le armi) entrano in Europa 10mila tonnellate di riso a chicco lungo nel 2008 e ben 370mila del 2016”, spiega il presidente Carrà. Un’invasione. E il prezzo crolla. A quel punto, i risicoltori italiani che avevano imboccato la via dell’Indica tornano sui loro passi e ricoltivano le varietà nazionali. Ma il mercato italiano è quello che è, più di tanto risotto non può mangiare. E così, per eccesso di offerta, crolla anche il prezzo del carnaroli e dell’arborio. E crolla per due anni consecutivi.

Uscire da questo stallo è complicato e di ricette magiche nessuno ne ha. Riconvertire i campi a soia o a mais? “Qualcuno ci ha provato, nel Pavese e nel Novarese si può – ha raccontato Beccaro – ma qui nel Vercellese è difficile. Nella parte a Nord dove sono io il terreno non lo consente”. E poi ci sono i vincoli burocratici, per riconvertire ci possono volere anche cinque anni. Manrico Brustia, risicoltore e presidente della Cia-Agricoltori di Novara e Vercelli, da 30 anni coltiva riso Indica e dal 2014 fa i conti con l’import a dazio zero dalla Cambogia: “Mi ha fatto calare il fatturato del 25%. Ci vorrebbero i contratti di filiera con le industrie che lavorano il riso, in modo da spuntare prezzi più equi per noi produttori. Qualcuno dalle mie parti ha riconvertito a frumento, e loro i contratti di filiera li hanno”.

Redazione
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