Il numero di centrali a carbone in via di realizzazione nel mondo ha registrato un forte decremento nel 2016, principalmente per l’instabilità della politica industriale di alcuni Paesi asiatici. È quanto emerge dal nuovo rapporto “Boom and Bust 2017: Tracking The Global Coal Plant Pipeline”, realizzato da Greenpeace, Sierra Club e CoalSwarm, e giunto alla sua terza edizione annuale. Secondo il rapporto, l’effetto congiunto del rallentamento nella costruzione di nuovi impianti e della dismissione di parte della flotta di quelli operativi apre alla possibilità di contenere l’aumento delle temperature medie globali nei 2 gradi centigradi, a patto che i Paesi coinvolti nell’”economia del carbone” proseguano in questa direzione.
Il declino dell’economia del carbone si articola in una riduzione del 48 per cento nelle attività che precedono l’inizio della costruzione delle centrali (realizzazione dei progetti, richiesta di permessi, attività finanziarie dedicate), in una riduzione del 62 per cento nell’avvio di nuovi cantieri e in un decremento dell’85 per cento nel rilascio di nuovi permessi in Cina. Questo andamento è dovuto principalmente a due fattori: ai provvedimenti restrittivi adottati dalle autorità centrali cinesi nella concessione di autorizzazioni alla realizzazione di nuovi impianti; ai tagli di budget degli investitori che operano in India. In questi due Paesi, al momento, sono stati congelati più di 100 progetti di nuove centrali.
Oltre al declino dei trend di costruzione di nuovi impianti, lo studio rivela anche la cifra record di 64 GW di potenza installata a carbone dismessi nel 2015 e nel 2016, principalmente nell’Unione europea e negli Stati Uniti: l’equivalente di circa 120 grandi centrali. «Il 2016 rappresenta un autentico punto di svolta per il clima», commenta Lauri Myllyvirta, responsabile della campagna globale Carbone e Inquinamento atmosferico per Greenpeace e co-autore del rapporto. «La Cina, ad esempio, ha fermato la realizzazione di molte nuove centrali a carbone dopo che la fortissima crescita delle energie rinnovabili in quel Paese le ha rese superflue per il sistema energetico. Dal 2013, le energie pulite hanno in pratica colmato il deficit energetico cinese».
Sempre nel 2016, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno registrato un forte decremento delle emissioni, grazie al ritiro dalla produzione di molte centrali a carbone. Anche il Belgio e l’Ontario hanno chiuso la loro ultima centrale, mentre tre Stati del G8 hanno annunciato una data ultima per il phase out della fonte più nociva per il clima. «Il trend che emerge da questo rapporto ricalca la situazione del nostro Paese», dichiara Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace in Italia. «L’età del carbone non si è conclusa, ma si vanno dismettendo le centrali più obsolete. E soprattutto non vi sono progetti per la realizzazione di nuovi impianti. L’ultimo che si minacciava di voler realizzare, a Saline Joniche, è stato definitivamente cancellato. Ma il nostro governo, al contrario di altri, non trova il coraggio di indicare una data ultima per l’uscita dal carbone: è il sintomo più evidente, questo, della mancanza di una strategia energetica veramente orientata al futuro e alla salvaguardia del clima», conclude Boraschi. In un quadro complessivamente molto positivo, nel rapporto emergono alcuni Paesi che non stanno investendo nelle energie rinnovabili e che sono invece fortemente impegnati a realizzare nuovi impianti a carbone: Giappone, Corea del Sud, Indonesia, Vietnam e Turchia.