“La grande mareggiata da sud, estate 1962. Dei tempi passati ricordo un vento che soffiava attraverso i canyons. Era un vento caldo chiamato Santana che portava con sé il profumo di terre tropicali. Aumentava d’intensità prima del tramonto. E spezzava il promontorio. Io e i miei amici spesso dormivamo in macchina sulla spiaggia, e il rumore del mare ci svegliava. E così all’alba sapevamo già che sarebbe stata per noi una grande giornata….”
(Voce fuori campo in “Big Wednesday”)
Hollywood è stata sempre spietata e dura contro i ribelli del cinema. Molti cineasti che rifiutavano di sottomettersi alla logica del profitto venivano messi nell’impossibilità di fare film o venivano semplicemente emarginati. Cito tre casi esemplificativi: Orson Welles, Michael Cimino e John Milius. Il regista di “Citizen Kane”, dopo i trionfi iniziali fu letteralmente cacciato dagli studios californiani e costretto a fare film a basso costo in Europa. Il secondo dopo il clamoroso flop de “I Cancelli del cielo” fu letteralmente fatto a pezzi. Girò il suo ultimo film nel 1996 e morì in povertà e solitudine nel 2016. Stessa sorte anche per John Milius, ormai 75enne, non gira lungometraggi dal 1991. Considerato all’inizio degli anni ’70 come il miglior sceneggiatore della sua generazione oggi è praticamente dimenticato ed ostracizzato da Hollywood. Eppure dopo aver girato “Dillinger” (1973), “Il Vento e il leone” (1975), “Un mercoledì da leoni” (1978) e “Conan” (1982) era all’apice del successo e della popolarità. Nel 1979 scrisse lo script di “Apocalypse Now”, celebrato capolavoro sulla guerra del Vietnam di Francis Ford Coppola. Sono bastati due flop, “Addio al re” (1987) e “L’ultimo attacco” (1991) e Hollywood decretò la “morte artistica” di questo talento della cinepresa. “Un mercoledì da leoni” è senza dubbio il suo testamento artistico per cui sarà ricordato e celebrato nella settima arte.
Nel 1978 usciva l’opera più intimista, autobiografica e nostalgica di John Milius, regista e sceneggiatore cardine del cinema statunitense degli anni ’70
“Comunque lo si prenda, da qualsiasi parte lo si avvicini, non è un film facile da giudicare e ancora meno da classificare. E’ un film mitico che di miti si nutre, ma che al tempo stesso li analizza, li decodifica, li smonta. Fin dai titoli di testa, con quella voce fuori campo che ricorda l’età felice della giovinezza lontana, s’annuncia uno dei temi: la nostaglia”.
(Morando Morandini)
di Alessandro Ceccarelli
A volte nella storia del cinema ci sono stati dei film che pur diventati amatissimi cult movie non hanno mai avuto quel successo al botteghino che avrebbero invece meritato. “Blade runner” di Ridley Scott del 1982 e “Un mercoledì da leoni” di John Milius del 1978 sono due esempi gloriosi e molto rappresentativi di un modo di concepire il cinema di due registi, il primo inglese e americano il secondo. Nel caso di John Milius si è trattato di un vero e proprio testamento esistenziale di come il regista concepiva le “cose che contano”: la vita, l’amicizia virile, la passione del surf, lo stare sulla cresta dell’onda. Dietro l’attesa per la grande mareggiata del 1974 si celano anche altri aspetti profondi di questo film intenso, commovente, indimenticabile. Testamento di un cinema che purtroppo non esiste più; soprattutto per lo sforzo di raccontare una generazione in gran parte segnata e devastata dalla tragedia della guerra del Vietnam. Una generazione che si era formata sul codice della sfida contro la natura (come spesso narrato da Ernest Hemingway”) e sulla difficoltà nell’affrontare il passaggio dall’adolescenza spensierata alle responsabiltà dell’età adulta. Arrivare sulla cresta dell’onda e rimanerci era il codice esistenziale dei surfisti californiani degli anni ’60. E John Milius era uno di loro.
Un anarchico di destra
John Milius, classe 1944, fa parte della prima generazione dei cineasti statunitensi che si formarono nelle università del cinema insieme a Francis Ford Coppola, George Lucas, Martin Scorsese e Steven Spielberg. Il giovane Milius dopo l’università in California entra nella cerchia di Coppola e Lucas e si concentra sulla scrittura. Possiede infatti delle grandi qualità come narratore. Nel 1969 scrive infatti la prima stesura di “Apocalypse Now” e nel 1971 partecipa (anche se non accreditato) alla sceneggiatura di “Dirty Harry”, il primo film sull’ispettore Callaghan con Clint Eastwood. L’anno seguente firma “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” diretto da Sidney Pollack e interpretato da Robert Redford e sempre nel 1972 è l’autore dello script di “L’uomo dai sette capestri” di John Huston con Paul Newman. All’età di 28 anni John Milius è uno dei più richiesti e brillanti sceneggiatori del cinema statunitense.
Le sue storie parlano di personaggi estremi, virili che lottano da soli contro le avversità. Uomini che amano la solitudine e che rifiutano le convenzioni. Alcuni giornalisti lo bollano come un fascista, altri come un anarchico di destra o un ribelle assoluto. La verità come sempre è nel mezzo. Di sicuro il John Milius sceneggiatore (la prima fase della sua carriera) è una grande novità del giovane cinema americano degli anni ’70 insieme al suo collega Paul Schrader, futuro collaboratore di Martin Scorsese e Brian De Palma. Nel 1973 John Milus decide di dirigere il suo primo film, “Dillinger”, storia del famoso rapinatore di banche durante la Grande Depressione. Per la stampa specializzata si tratta di un eccellente debutto. Nel 1975 conferma le sue qualità con “Il vento e il leone” interpretato da Sean Connery. Con soli due film John Milius è una delle realtà più vivide del nuovo cinema americano insieme ai colleghi Scorsese, Bogdanovich, Friedkin e Cimino. Per il successivo film John Milius alza il tiro delle ambizioni. Da grande appassionato e praticante di surf vuole fare una pellicola che rappresenti al meglio l’epopea dei surfisti californiani: giovani sbandati, anarchici che rifiutavano le convenzioni perbeniste della società americana degli anni ’60. Dietro le vicende dei tre protagonisti del film, Matt, Leroy e Jack, accomunati dalla passione del surf vista come codice etico di vita, si sviluppa la progressione drammatica attraverso quattro grandi mareggiate (1962, 1965, 1968 e 1974). Dai primi tempi spensierati con feste, baldorie e grandi bevute lo scorrere inesorabile del tempo cambierà drasticamente le loro vite e le loro esistenze. Al centro della grande narrazione di John Milius si stagliano il difficile mestiere di vivere; il crescere e superare i grandi ostacoli dei passaggi dall’adolescenza alla maturità; la guerra del Vietnam, vista come rapina e devastazione di un’intera generazione e il mito del successo, così stratificato nella società americana che costringe le persone “a primeggiare” a qualsiasi costo. Quando il film uscì nell’autunno del 1978 fu un autentico flop al botteghino. Il regista soffrì moltissimo per il disastro finanziario di questa sua “creatura” su cui aveva profuso tutte le sue energie creative, artistiche, umane ed esistenziali. Pensò anche al ritiro. Poi, pian piano, avvenne una sorta di piccolo miracolo. Dalla metà degli anni Ottanta, partendo dal Giappone, iniziò una lenta ma inesorabile rivalutazione di “Un mercoledì da leoni”. Anche in Europa negli ultimi due decenni il film di John Milius è diventato un cult-movie da amare follemente. Purtroppo la rivalutazione e il successo di questo film è andato di pari passo con l’emarginazione di John Milius da parte di Hollywood. Nel mondo del business americano non c’è spazio per un grande narratore di eroi, emarginati e perdenti.